Qualche anno fa, intorno al 2018, ho avuto una conversazione con il professore di filosofia Diego Bermejo, dell’Università di Deusto, che era venuto a Cambridge per alcune ricerche. Gli dissi che il problema della teodicea è un problema importante in teologia e lui rispose che la teodicea non è un problema di teologia, ma il problema della teologia. Quel momento fu per me come un lampo di illuminazione. Forse ho esagerato su quell’affermazione, ma si adatta bene alla mia identificazione del male con la metafisica. In questo contesto il problema della teodicea mette in scacco non solo Dio, ma il mondo stesso. La domanda “perché esiste il male?” mette in discussione non solo l’esistenza di Dio, ma persino l’esistenza di questo mondo. L’esistenza di questo mondo è impossibile da concepire se prendiamo seriamente in considerazione tutto il male che contiene. In questo contesto la metafisica, con la sua certezza sull’esistenza dell’essere, diventa decisione di ignorare questa difficoltà radicale, diventa un’accettazione e una legittimazione dell’esistenza del male. Io concludo che la metafisica, che è qualsiasi modo di pensare e percepire che si basi sulle proprie strutture come qualcosa di ineluttabile, è il male stesso. Di conseguenza, il concetto di “comprensione”, che necessita dell’esistenza oggettiva di ciò che viene compreso, è metafisico e malvagio anch’esso, perché cerca di impossessarsi di potere, controllo, inquadramento, ingabbiamento, strutturazione.
Con ciò non mi riferisco agli sforzi di comprensione che vengono compiuti nella scienza. Nella scienza la comprensione ha un orizzonte limitato, perché la scienza non rivendica la stessa universalità a priori rivendicata dalla metafisica. Anche la scienza si basa sulla metafisica, ma nella scienza, come afferma Dario Antiseri nel suo libro Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede (1980), la metafisica funziona solo come ipotesi che non si trasformano mai in conclusioni universali definitive; in filosofia il problema della metafisica è che si considera non come ipotesi, ma come insiemi di strutture date per scontate.
A questo punto possiamo considerare che la domanda “perché esiste il male?” è finalizzata alla comprensione fondamentale di qualcosa. Ciò significa che la domanda è suggerita da una tendenza metafisica che è in noi, un desiderio di trovare una soluzione al problema del male attraverso la comprensione di qualcosa. In altre parole, la domanda sul male è suggerita e guidata dal male stesso, è il male che cerca ancora di controllarci, spingendoci verso il suo stile di interrogare e ragionare, uno stile che cerca il controllo, le conclusioni metafisiche.
Di nuovo, questo non significa, ad esempio, che la ricerca scientifica sul cancro sia una cosa cattiva. Come ho detto, la scienza opera nell’orizzonte limitato dell’esperienza e degli esperimenti. La metafisica in filosofia, invece, mira ad operare in un orizzonte che si suppone teoricamente universale, infinitamente più universale della scienza.
Una volta rivelato, destrutturato, questo meccanismo ci fa capire che il modo per uscire da questo imbrigliamento nella metafisica, nell’oggettività, è la soggettività, che significa arte, emozioni, contemplazione, ascolto, come strumenti primari ed essenziali per gestire e interiorizzare il nostro rapporto con l’esistenza. In secondo luogo, abbiamo comunque bisogno di metafisica, perché la nostra umanità, in questa storia presente, non può fare a meno del verbo essere. Possiamo fare una sintesi dicendo che c’è da coltivare un dialogo permanente tra soggettività e oggettività. Questo criterio si applica anche alle nostre relazioni con le altre soggettività, perché anch’esse possono essere una presenza metafisica, che corrisponde all’idea di Sartre secondo cui “L’inferno sono gli altri”.